Nel dedicare il Paradiso a Cangrande della Scala, Dante chiama questa sua opera estrema «la sublime cantica, che si fregia del titolo di Paradiso». Tale definizione corrisponde, nella profonda consapevolezza dell’autore, alla singolarità e altezza di questo testo, che appare diverso da ogni altra composizione letteraria a noi nota. Diverso anche rispetto alle altre due cantiche, già così rivoluzionarie nell’invenzione e nel linguaggio, che fanno parte dello stesso poema. Se si volesse indicare il carattere che costituisce la sua unicità, crediamo che esso possa ritrovarsi, usando le parole del poeta, in quel verso che nel canto XXIV, traducendo il testo della Lettera agli Ebrei, definisce la fede: «sostanza delle cose sperate». Tale ci appare infatti la poesia del Paradiso nella sua singolarità: essa si sostanzia tutta di cose che non si vedono, e che soltanto, per fede, si sperano.

Il suo argomento infatti, la beatitudine del paradiso, cioè il perfetto compimento dell’infinito desiderio dell’uomo nel suo immedesimarsi con la realtà divina, è un qualcosa che non è sperimentato, ma soltanto sperato, e che solo può esserci dato, in qualche breve istante della vita terrena, e confusamente intravedere.

Di qui l’assoluta novità della cantica dantesca, che si fa memoria di cose soltanto sperabili, o soltanto misticamente sperimentabili.

Certo il racconto poetico dà figura sensibile a tale realtà, conferendole bellezza in forme di assoluto splendore, ma tutto questo – come il poeta avverte – non è che un’ombra, come un tenue ricordo di un sogno appena svanito, un’impressione rimasta nell’animo; ombra da cui egli trae tutto quello che il suo verso ci dirà (I, 10-12). E d’altra parte quel mondo ricordato non ha nessun carattere di indeterminatezza, ma ha un ordine e una struttura razionalmente definiti, fondati sulla «somiglianza» tra mente umana e quella divina propria invece della letteratura.

Londra, British Library, Manoscritto Yates Thompson 36, 1444-1450 Particolare della miniatura del f. 141 di Giovanni di Paolo con Dante e Beatrice di fronte al mistero della redenzione (Fonte http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/ILLUMIN.ASP?Size=mid&IllID=56951).

Nuovo dunque questo terzo regno, nel quale Dante ha coerentemente rinunciato ad ogni forma di raffigurazione sensibile usata negli altri due, quali il paesaggio e la figura umana, creando un singolare racconto di visione di oggetti incorporei, dove l’unico paesaggio è il cielo, e le persone sono soltanto fiamme. Le prime due cantiche sono il racconto di una memoria storica, dove hanno posto gli eventi quotidiani, i vizi e le virtù degli uomini, le loro individuali vicende. Il Paradiso invece ricorda e racconta anch’esso un’esperienza, ma un’esperienza interiore, che possiamo chiamare con sicurezza mistica perché a questo ci autorizza il testo di Dante con preciso riferimento alla visione di San Paolo posto al centro del primo canto (vv. 73-75); e a questa esperienza occorre una diversa qualità di memoria. Alla memoria storica appartengono il tempo e lo spazio, i luoghi che il pellegrino percorre con il suo piede mortale (nell’Inferno il peso, nel Purgatorio l’ombra sono il segno della sua corporeità), i paesaggi in tutto uguali alla geografia terrestre, infine le singole storie degli uomini sono sempre esattamente delimitate da un luogo, un tempo, un gesto. Ma alla memoria mistica tutto questo è sottratto: qui non si misura il tempo, non si descrive il cammino (il passare da un cielo all’altro non è mai un atto del corpo, ma solo dello sguardo, e talvolta neppure consapevole; e io era con lui; ma del salir / non m’accors’io, se non com’uom s’accorge, / anzi ‘l primo pensier del suo venire: X, 34-36).

Anche gli uomini hanno qui perduto la loro individuale prepotenza fisica e morale; né ci si affollano intorno a narrare i loro gesti terreni per essere ricordati nel mondo della storia. Poche, brevi, non in primo piano, le singole private vicende narrate, proprio solo nei primi tre cieli (Piccarda, Romeo, Cunizza). Le altre storie, quelle di ampio respiro, hanno sempre un’altra funzione, pubblica e non privata, un valore cioè profetico, di rimprovero ed esortazione per il mondo corrotto: tali sono le grandi figure di Francesco e di Domenico, quella di Giustiniano che si identifica con la storia provvidenziale dell’Impero, come quella di Cacciaguida con la vita dell’antica, sobria e casta Firenze.

Ciò accade perché Inferno e Purgatorio hanno come primo oggetto l’uomo storico e il suo cammino nel tempo (mentre la vita nel tempo è presente come in secondo piano), il Paradiso invece ha per primo oggetto quella realtà assoluta ed eterna a cui l’uomo tende come a suo supremo desiderio, verso la quale il cammino non è misurabile coi tempi storici, e i singoli eventi terreni sono davanti ad essa piccoli e lontani.

Londra, British Library, Manoscritto Yates Thompson 36, 1444-1450
Particolare della miniatura del f. 189 di Giovanni di Paolo
con Dante e San Bernardo di fronte alla Madonna in trono col Bambino
(Fonte http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/ILLUMIN.ASP?Size=mid&IllID=56997).

* Il contenuto di questa scheda è tratto da: DANTE ALIGHIERI, Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Bologna, Zanichelli, 2001, La terza cantica pp. IX-XVIII.