«Dante Alighieri, il poeta fiorentino vissuto tra il XIII e il XIV secolo, è il più grande poeta dell’Europa medievale, e uno dei massimi dell’umanità. E per la profonda ispirazione religiosa della sua opera, è da considerarsi anche il maggior poeta del cristianesimo».[1]
Incerta è la data di nascita dell’Alighieri (forma del cognome stabilizzata dal Boccaccio). Si sa che fu battezzato col nome di Durante nel «bel san Giovanni» (Inf. XIX 17), il celebre battistero fiorentino, il Sabato Santo del 1266, 27 marzo. Se poi si considera che la Commedia inizia con la frase «nel mezzo del cammin di nostra vita» (Inf. I, 1) e che, in accordo con la stessa Scrittura, si considerava la vita media di circa 70 anni (cfr. Sal. 90 [89], 10), si può immaginare che Dante parli di sé trentacinquenne. Se infine il viaggio nei tre regni dell’oltretomba è davvero ambientato nel 1300, ma anche questa è una deduzione, e ci troviamo nell’anno del primo Giubileo indetto da Bonifacio VIII, il Poeta dovrebbe esser nato nel 1265, tra il 21 maggio e il 21 giugno, cioè sotto il segno del Gemelli come egli stesso sembra dichiarare nella sua opera (cfr. Par. XXII 111).
Rimase presto orfano della madre e poi anche del padre, ereditando i modesti beni che gli permisero di dedicarsi agli studi e alla vita pubblica. Da Gemma di Brunetto Donati, sposata nel 1285 circa, avrà quattro figli: Giovanni (per il quale ci resta un solo e incerto documento), Pietro (morto a Treviso nel 1364 e sepolto in San Francesco), Jacopo (ricordato come uno dei primi commentatori dell’opera paterna) e Antonia (che la tradizione vuole monaca nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna con il nome di suor Beatrice).
Nel 1274, all’età di nove anni, Dante incontra per la prima volta la più nota Beatrice, che gli antichi commentatori identificano nella figlia di Folco Portinari, poi andata in sposa a Simone dei Bardi.
Di lei Dante, si innamorò perdutamente, amandola inizialmente secondo i canoni dell’amor cortese, cantando la dolcezza del suo sguardo, la bellezza del suo volto, la grazia e la modestia dei suoi gesti. La sua morte avvenuta nel 1290 getterà Dante in una profonda crisi spirituale e poetica, uno smarrimento tra falsi amori e futili scopi. In quell’anno cominciò a frequentare «le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti» (come egli stesso scriverà in Convivio II xii 7), approfondendo il pensiero di san Bonaventura presso i francescani di Santa Croce e quello di san Tommaso dai domenicani di Santa Maria Novella.
La partecipazione alla vita politica della sua città (tra il 1295 e il 1296 fece parte del consiglio del Capitano del Popolo, del consiglio dei Savi e del consiglio dei Cento e nel 1300 fu eletto per un bimestre tra i Priori, il massimo organismo del Comune) e il suo schierarsi per una politica moderatamente popolare (guelfi bianchi) in contrapposizione a quella più conservatrice e aristocratica (guelfi neri)[2] appoggiata da Bonifacio VIII, gli costò nel 1302 prima la condanna in contumacia ad un’ammenda, al confino e all’interdizione a vita dagli uffici pubblici e poi, per essersi rifiutato di sottomettersi a quello che considerava un ingiusto verdetto, quella al rogo. Iniziò così quell’esilio che lo porterà tra l’altro a Verona, “lo primo refugio e ‘l primo ostello” (cfr. Par. XVII 70) e infine a Ravenna, un’esperienza che «ha costituito un punctum dolens nella lacerante biografia dantesca, ma soprattutto un topos fondamentale dell’opera del divino Poeta: difatti, come scrive Pasquini “se di qualcosa non è dato dubitare nel giudizio che la posterità ha costruito di Dante, tale è certamente l’importanza dell’esilio nella sua vita: il fatto che esso abbia segnato una svolta decisiva nell’esistenza e nell’opera del nostro autore”.[3] Nell’opera di Dante, il tema dell’esilio si profila inizialmente come amara sofferenza per l’ingiustizia subita e come straziante nostalgia per la lontananza dalla patria. Ma nell’iter artistico l’asprezza dello sdegno e del dolore sfuma, fondendosi con la nostalgia e il rimpianto delle anime purgatoriali, in una malinconica accettazione del peregrinare, scevra da ogni speranza nella giustizia umana. La progressiva perdita dell’individualità del dolore culmina con la fine del viaggio ideale (Paradiso XVII e XXV), dove la condizione dell’esule diventa simbolo universale di un’umanità sradicata dal divino».[4]
[1] Anna Maria Chiavacci Leonardi, Dante Alighieri. Invito alla lettura, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001, p. 9.
[2] Guelfi e ghibellini erano le due fazioni contrapposte nella politica italiana del Basso Medioevo, in particolare dal XII secolo sino alla nascita delle Signorie nel XIV secolo. Le origini dei nomi risalgono alla lotta per la corona imperiale dopo la morte dell’imperatore Enrico V, avvenuta nel 1125, fra le casate bavaresi e sassoni dei Welfen, da cui la parola «guelfo», con quella sveva degli Hohenstaufen, signori del castello di Waiblingen, anticamente Wibeling, da cui la parola «ghibellino». Successivamente – dato che la casata sveva acquistò la corona imperiale e, con Federico I Hohenstaufen, cercò di consolidare il proprio potere nel Regno d’Italia – in questo ambito politico la lotta passò a designare chi appoggiava l’impero (ghibellini) e chi lo contrastava sostenendo il papato (guelfi). La Firenze guelfa dei tempi di Dante risultava comunque divisa in due fazioni: i Bianchi, riuniti intorno alla famiglia dei Cerchi, fautori di una moderata politica filo papale, che riuscirono a governare dal 1300 al 1301; e i Neri, il gruppo dell’aristocrazia finanziaria e commerciale più strettamente legato agli interessi della chiesa, capeggiato dai Donati, che salirono al potere con l’aiuto di Carlo di Valois, inviato dal papa Bonifacio VIII. Le principali famiglie di Firenze si schierarono tutte con l’una o l’altra fazione. Giunse a Firenze il cardinale Matteo d’Acquasparta, legato pontificio. Ma poiché i Bianchi rifiutarono di dimettersi dagli uffici, il cardinale legato lasciò Firenze, lanciando l’interdetto sulla città. Si crearono disordini al termine dei quali il Comune mandò in esilio i capi delle fazioni. I Neri, con Messer Corso Donati, furono confinati a Castel della Pieve, i Bianchi, tra cui Dante, a Sarzana.
[3] Emilio Pasquini, La parabola dell’esilio, in: Dante e le figure del vero. La fabbrica della “Commedia”, Milano, Mondadori, 2001, p. 122.
[4] Giuseppe De Marco, L’esperienza di Dante «exul immeritus» quale autobiografia universale, in: «Annali d’Italianistica» 20, 2002, 21.