INFERNO [1]

Lo scheda dell’inferno tratto dal “Dialogo di Antonio Manetti, cittadino fiorentino C.ca al sito, forma & misura dello Inferno di Dante Alighieri”, S.n.t. [Firenze, Giunti, c.ca 1506]. In 8°.[/caption]Il racconto di un viaggio nei regni dell’aldilà cristiano non era in sé una cosa nuova nella letteratura, ma l’oltremondo dantesco costituisce qualcosa di completamente diverso dai precedenti racconti: Dante ha creato di fatto nell’immaginare il suo viaggio, una struttura dell’aldilà che non esisteva prima di lui, dando a inferno e purgatorio una collocazione geografica precisa, ritrovabile cioè sulla carta terrestre. Ciò corrisponde alla storicità che governa tutto il poema, immaginato come racconto di un evento reale attraverso luoghi reali, appartenenti quindi alla geografia e alla storia.

Lo scheda dell’inferno tratto dal “Dialogo di Antonio Manetti, cittadino fiorentino C.ca al sito, forma & misura dello Inferno di Dante Alighieri”, S.n.t. [Firenze, Giunti, c.ca 1506]. In 8°.

Lo scheda dell’inferno tratto dal “Dialogo di Antonio Manetti, cittadino fiorentino C.ca al sito, forma & misura dello Inferno di Dante Alighieri”, S.n.t. [Firenze, Giunti, c.ca 1506]. In 8°.Dante situa l’inferno – sotterraneo come Scrittura e tradizione volevano – esattamente al di sotto di Gerusalemme, e il purgatorio ai suoi antipodi, sulle pendici della montagna in cima alla quale si trova il Paradiso terrestre. Tale collocazione ha tra l’altro un ben chiaro significato teologico: sulla superficie terrestre il luogo dove Adamo peccò è posto agli antipodi del luogo – Gerusalemme appunto – dove con la morte di Cristo si compì la redenzione.
Alla storicità della collocazione geografica si accompagna nella Commedia la razionalità dell’ordinamento dei peccatori, suddivisi secondo una precisa gradazione delle pene. E così abbiamo gli incontinenti, i violenti e i fraudolenti, situati in tre zone diverse dell’abisso infernale, immaginato come un imbuto, cioè come una voragine circolare che va restringendosi fino al suo fondo, il centro della terra, dove è conficcato Lucifero.
Questa struttura razionale, sul piano geografico e su quello morale, dà al racconto dantesco, oltre che armonia e chiarezza nello svolgimento, un carattere di grande credibilità: non un sogno o una visione, ma un cammino reale è quello che Dante intende descrivere, e così di fatto esso appare al lettore, tanto che le donne di Verona, al passare del poeta, si dicevano tra loro: «vedi come è nero, che davvero è stato all’inferno!».
Per quando riguarda i modi del racconto e l’ambiente stesso di questo mondo a tutti ignoto, la Commedia si ispira all’Eneide virgiliana con quella singolarità che tuttavia caratterizza tutto il poema dantesco: se l’insieme ritiene dei tratti tradizionali propri dell’inferno (oscurità, fuoco, pianti), i vari aspetti dei diversi luoghi attraversati – sempre attentamente descritti, si direbbe, dal vero – sono ogni volta paragonati a luoghi della terra ben noti ai lettori.
È ciò che accadrà anche alla figura dell’uomo, quell’uomo infernale che è forse la più grande invenzione di Dante. Esso non è infatti un essere spregevole, connotato tutto al negativo, come per lo più era immaginato. Nell’inferno, ricordiamolo, è presente l’amore di Dio, come dice la scritta sulla sua porta: «Giustizia mosse il mio alto fattore: / fecemi la divina podestate, / la somma sapienza e ’l primo amore» (III, 4-6). E l’uomo mantiene l’immagine e somiglianza con il suo creatore, che niente potrà togliergli.
Quest’uomo conserva la sua dignità, e la sua coscienza morale (i segni appunto di questa immagine), riconoscendo la propria colpa, e la giustizia che lo ha punito. Egli non è diverso da quello che era in terra (così dirà per tutti Capaneo in XIV 52: «qual io fui vivo, tal son morto»), e ciò corrisponde ad una profonda verità teologica, già definita da Agostino: gli uomini dell’inferno sono ciò che essi vollero essere, ad essi resta ciò che scelsero, vale a dire sé stessi; privati cioè – per il loro stesso rifiuto – del fine divino a cui erano destinati, e quindi della felicità.
Che Dante possa parlare con loro, come se li avesse appena lasciati sulle vie della terra – così accade per esempio con il suo maestro Brunetto Latini nel canto XV – è dunque una realtà poetica che corrisponde alla realtà teologica.
Da questa condizione nasce tutta la grande drammaticità e la grande poesia delle più celebri figure dell’Inferno dantesco: la tragedia di questi uomini è proprio la loro originaria grandezza, ora come mutilata, ridotta a una infelicità senza possibile riscatto. A ognuno è rimasto il valore che egli onorò in vita: la gentilezza a Francesca, la fedeltà a Pietro, la magnanimità a Farinata, la passione di conoscenza a Ulisse. Ma tali valori non bastano a salvarli.

E di qui discende quel sentimento che percorre tutta la cantica, e che è la forma in cui l’amore divino si fa presente nell’inferno di Dante, e cioè la pietà: alta e commossa di fronte a incontinenti e violenti, la pietà si fa però minore via via che si scende nella zona più profonda dell’inferno, quando si entra nel mondo della frode, dove l’uomo comincia a perdere la propria dignità, avendo usato per peccare di quella parte di sé, la ragione, che fa la sua identità stessa di persona umana; e finisce con lo spegnersi del tutto nell’ultimo cerchio, la ghiaccia dei traditori, dove viene a mancare l’oggetto verso il quale essa si piega, in quanto colui che tradisce chi in lui si fida, tradisce cioè l’amore, non è più degno del nome di uomo.

Londra, British Library, Manoscritto Yates Thompson 36, 1444-1450. Particolare della miniatura del f. 2 di Priamo della Quercia al canto I dell’Inferno con le tre fiere che attaccano Dante e il suo incontro con Virgilio (Fonte: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/ILLUMIN.ASP?Size=mid&IllID=56664).

Tale cammino ha significato e valore catartico, cioè di purificazione, per il poeta come per i suoi lettori: ad ogni tappa Dante lascia dietro di sé, superandolo, uno dei legami, cioè delle passioni, che lo avevano avvinto nella sua vita passata. Ma tale distacco non avviene senza dolore. Da questo scontrarsi dell’anima tra l’antico e il nuovo affetto – così evidente in alcuni episodi, come quello di Francesca o di Brunetto, celato in altri, ma pur sempre presente – si crea la profonda poesia che da sempre ha avvinto i lettori dell’Inferno.


[1] Il contenuto di questa scheda è tratto da: Dante Alighieri, Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Bologna, Zanichelli, 2001, La prima cantica pp. XIX-XXII.